di Massimo Veltri
Per te che di mattina svegli il tuo bambino e poi/Lo vesti e lo accompagni a scuola e al tuo lavoro vai/Per te che un errore ti è costato tanto/Che tremi nel guardare un uomo e vivi di rimpianto

Gli mulinavano per la testa queste strofe, la musica di meno, non riusciva a canticchiare: a recitare si’-anche se è tutt’un’altra cosa. Una mattina presto radiosa, in macchina verso la città, per le ferie ci voleva
ancora qualche giorno: scendeva e risaliva. Alla radio stava ascoltando Yo’re a big girl now, parole e musica di Bob Dylan, quando oltre le parole improvvisamente gli girarono intorno, avvolgendolo, pure le note, delicate, struggenti: Battisti-Mogol.
Io resto qui/A darle i miei pensieri/A darle quel che ieri/Avrei affidato al vento, cercando di raggiungere chi
… tatatata’!!
Batte’ entrambi i palmi sul volante, uno scatto con la testa in avanti e via con la musica, a squarciagola, mettendo in pausa Dylan, spingendo sull’acceleratore.
Dopo anni e anni l’aveva rivista, meglio: vista, e non avrebbe potuto riconoscerla, capire chi era, se non fosse stato per l’incedere, l’eleganza flessuosa, naturale, danzante, il muoversi, il suo fluttuare nell’aria: bacino, braccia, gambe, testa. Sempre quello: Mina nei giorni migliori, più charmant di una modella, di Anouk Aimee. Praticamente ogni giorno passava davanti casa sua insieme a una ragazza di dodici-tredici anni cui posava protettivamente il braccio-flessuoso, si’-sulle spalle. Il giorno prima, l’ultima volta, frontalmente: lui aveva fatto un lieve e sorridente cenno di saluto, lei aveva colto ma non reagito. Non aveva capito chi fosse, non aveva voluto rispolverare un fantasma del suo passato, chissà, un passato assolutamente comprimario ma pur sempre passato, pur sempre fantasma. Dovunque andasse, qualsiasi fosse il posto cui accedesse sembrava entrare la luce: sfolgorante, abbagliante ma carezzevole. E tutti erano ai suoi piedi fra l’invidia e le occhiatacce di ‘amiche’ e conoscenti. I giovanotti scrivevano sui jeans il suo nome e ogni ballo accordato, lento o rock che fosse, un trofeo. Di lei si ricordava solo una love story, una sola, estiva, finita non si sa come ma struggente assai. Poi usci’ fuori dal radar, scomparve letteralmente. Pettegolezzi, chiacchiere, indiscrezioni tante ma senza un minimo costrutto dietro. S’era fatta monaca, s’era sposata con uno sceicco?
Poi era ricomparsa, col suo avanzare regale inconfondibile e una ragazzina da proteggere. Vestita come una terziaria francescana, gonna diritta fino ai piedi, un maglionaccio dai colori smorti, sformato, capelli arruffati e storti, un paio di occhiali a fondo di bottiglia, lei che per un paio di estati fu eletta Miss Eleganza.
Un pomeriggio sul tardi la vide, acquattata, con un tipo con cui ciu ciu ciu pareva si stesse confessando invece capi’ si stava litigando e, curioso e circospetto si apposto’ e captò: E’ pure tua figlia, non puoi pensare che possa crescerla io da sola. Quello-lo riconobbe, uno insignificante, tronfio e vanesio quanto scialbo e modesto, per di più molto avanti in eta’-era uno che gravitava da esterno al gruppo di quegli anni, si vedeva che voleva ‘entrare’ ma era evitato da tutti.
Alla fine dell’estate si avvicino’, lo salutò cordialmente, gli sorrise e gli chiese se poteva fare qualcosa per sua figlia: era dislessica e aveva problemi a rapportarsi con gli altri.
Non erano mai stati per davvero amici. Lo diventarono.