di Antonella Veltri

Tutto può cominciare con leggerezza. Una conversazione pubblica in calce a un post su Facebook che diventa conversazione privata su Messanger.

La lusinga dell’essere state notate, in mezzo a migliaia e migliaia di altre che ci sembrano piĂą attraenti, piĂą interessanti, più… Lui si racconta, si interessa alla nostra vita, ci ascolta. Ci fa sentire speciali. Ci capisce.Poi ci si scambiano i numeri di telefono, si chatta su WhatsApp o su Telegram, a ogni momento arriva un pensiero, un complimento, una richiesta. Lui ci invia e ci chiede foto e video, “ti penso” …” tu mi pensi? …“e quanto mi pensi?”… Poi le foto si fanno piĂą intime, le parole al telefono piĂą erotiche,

sembra un gioco che libera la nostra sessualità, dopotutto è questa la nuova frontiera del sesso al tempo dei social. E anche se “se ne leggono tante” e potrebbero esserci dei rischi ci diciamo che no, noi siamo diverse, lui è diverso, a noi non può capitare nulla di male.

Poi succede che una sera usciamo con le nostre amiche, con i nostri amici, o che ce ne andiamo al mare dimenticando a casa il carica batterie e il cellulare si scarica. Non leggiamo la chat, il telefono è spento, la segreteria telefonica si riempie di messaggi. Che si fanno sempre più insistenti, insinuanti, accusatori. “Con chi sei?”, “che stai facendo?”, “perché non mi rispondi?”, “perché hai spento il cellulare?”. E anche se diciamo la banale verità non veniamo credute, veniamo accusate di mentire, di tradimenti immaginari, di “non tenere a lui” e minacciate: “Se continui così è finita”. Allora promettiamo che no, non dimenticheremo più il carica batterie, no, domani sera diremo alle nostre amiche che non stiamo bene, che non ce la sentiamo di uscire. Così lui ci troverà quando chiama.

A distanza e via smartphone inizia una dinamica di controllo ossessivo che ci spinge a cambiare la nostra vita per “non farlo arrabbiare”, ci isola da amicizie e famiglia, fa di lui l’unico nostro punto di riferimento. Perché poi, “quando va bene”, quando lui è di buon umore perché noi siamo state ubbidienti, “tutto torna come prima”.

Così, online e via cellulare, si riproduce la “spirale della violenza” che i centri antiviolenza hanno delineato in oltre 30 anni di accoglienza e supporto a donne che subiscono violenza: un andamento a montagne russe tra sfuriate e richieste di perdono, attenzioni speciali e scatti di ira se qualcosa non va come dice lui, in cui l’intensità della violenza cresce costantemente.

Fino a quando decidiamo di dire basta. Ma non è finita.

Perché lui non ci sta, ci tempesta di telefonate, di messaggi, ci chiama usando i cellulari dei suoi amici per trarci in inganno, ci insulta sui social, minaccia di diffondere le foto o i video sessualmente espliciti che gli abbiamo inviato.

Questa è la nuova frontiera della violenza contro le donne ai tempi di smartphone e social, la cosiddetta cyberviolenza: stalking, tempestare di chiamate e messaggi, ma anche seguire la donna, appostarsi in prossimità della sua abitazione o del suo luogo di lavoro per costringerla a parlare, palesarsi quando è con altre persone e via dicendo; revenge porn, cioè diffusione di immagini sessualmente esplicite per ferirla, umiliarla, deriderla pubblicamente, a cui si aggiungono i gruppi Telegram usati per lo scambio di materiale pedo-pornografico, altro fenomeno in crescita, l’ultima rete italiana sgominata dalla Polizia Postale poche settimane fa; e stalkerware, ovvero l’installazione nei cellulari della partner di software che ne spiano le conversazioni e le chat per assicurare un controllo ferreo e pervasivo su tutta la sua vita. Un fenomeno così in crescita da aver generato un nuovo mercato per App che aiutano a individuare gli stalkerware e ad archiviare in maniera sicura chiamate e messaggi per ricostruire le prove di stalking e cyberviolenza in caso di denuncia, come quella sviluppata da Fondazione Vodafone con il contributo di uno dei centri antiviolenza della rete D.i.Re, la Casa di accoglienza delle donne di Milano.

Il web si conferma purtroppo uno spazio che ripropone gli stessi stereotipi patriarcali, dove “amare” una donna equivale a possederla, possedere tutto il suo tempo, le sue attenzioni, la sua vita. E soprattutto il suo corpo. Guai se lei decide di dire basta.

Parlare di questa violenza è difficilissimo, perché il senso di vergogna e umiliazione che le donne provano per “esserci cascate” è fortissimo: dopotutto sono spesso loro stesse ad aver scattato e girato, o consentito che fossero girati, foto e video sessualmente espliciti ora usati per ricattarle. Sono loro ad averli inviati al loro maltrattante. Sono le donne a “essersela cercata”, come ancora si ripete per giustificare uno stupro se la donna indossava una minigonna o aveva bevuto o aveva “dato confidenza” a uno sconosciuto. Oggi la diffusione di immagini sessualmente esplicite è reato, una delle poche cose buone del Codice Rosso approvato nel 2019. Un risultato che lenisce appena la rabbia per il suicidio di Tiziana Cantone, che a 31 anni decise di togliersi la vita dopo che i suoi video, sessualmente espliciti girati dal fidanzato, vennero diffusi in rete scatenando l’inferno e la cui vicenda umana e giudiziaria mostra ancora una volta – come ha segnalato il Rapporto sull’applicazione della Convenzione di Istanbul in Italia del GREVIO, il Gruppo di esperte sulla violenza contro le donne del Consiglio d’Europa – quanto il sistema giudiziario italiano sia ancora lontano dall’affrontare la violenza in maniera da permettere alle donne di ottenere davvero giustizia.