di Annalisa Martino
Mi è capitato più volte, nel corso del ventennio (e quando dico ventennio, per ovvie ragioni anagrafiche non mi riferisco al triste capitolo intercorso tra le due guerre mondiali), di

andare all’estero e di imbattermi, di riffa o di raffa, in faticosi dibattiti sull’uomo, su Dio, su questioni di politica internazionale o italiana. Luoghi comuni, battute, niente di più, sciorinati col mio pessimo inglese o col mio, un tantino più preciso, spagnolo. Frasi buttate lì, quelle che si dicono in vacanza, magari sotto l’ombrellone, nella hall di un albergo, in taxi o al bar.
Tuttavia, c’era un elemento saliente, in queste amene chiacchierate, che insorgeva sempre, prima o poi, ed era questo. Dai miei discorsi, si capiva che, pur essendo italianissima, non mi configuravo come berlusconiana. Com’era possibile? Un ossimoro, per gli stranieri ignari. Era noto, infatti, il suffragio universale di cui il cavaliere godeva, tanto che mi si formulava la domanda di rito che suonava più o meno così: “Ma se nessuno di voi ha mai votato Berlusconi, come è possibile che vinca sempre e che, qualunque avversario voglia frenare la sua riconferma al potere, venga immancabilmente segato in due e politicamente ucciso?”. Cercavo, come è ovvio, di spiegare che malgrado le maggioranze bulgare di cui il magnate milanese godeva, c’era una larga fetta della popolazione che ne criticava in modo aspro la politica, la cultura che incarnava, le malefatte ed anche i cambiamenti inesorabili da lui prodotti nella società italiana e nelle pieghe della pelle di tante generazioni. I miei interlocutori restavano comunque sempre molto stupiti dall’intorpidimento neuronale di una moltitudine così estesa di italiani e azzardavano ipotesi forse un po’ offensive, ma non lontane dalla verità.

E mi dicevano che i successi di Berlusconi non erano ascrivibili a Berlusconi in sé ma a quel Silvio che si annidava in tutti noi. Berlusconi era amato perché sapeva evocare sentimenti di sicuro poco nobili ma molto umani: l’astuzia, la lotta per la supremazia, l’arrivismo, l’imbroglio, la lussuria, la frode fiscale e tante altre belle virtù, mai concentrate in un solo uomo. Oggi, il caimano, come ben sappiamo, non è affatto morto, nonostante le nuove fattezze di padre nobile della politica, ma ancora prima di morire, si è assicurato il suo futuro post mortem, ha clonato, cioè, milioni di replicanti che gli garantiranno un’immortalità culturale. Molto più forte di quella corporea che, purtroppo per lui, non è stato in grado di acquistare con i soldi.
Mutatis mutandis, penso a Trump e alle oscure affinità elettive che accomunano i due potenti imprenditori. Non è un bel pensare, c’è di meglio, lo so, nell’infinito parco delle riflessioni possibili, ma mi viene spontaneo accostare le due vicende politiche. Il mondo intero ha vissuto con ansia le ultime elezioni americane perché i quattro anni della presidenza più proterva, arrogante e spregiudicata che gli americani abbiano mai avuto sono stati anni drammatici e di forte involuzione, e si è temuto che potessero replicarsi. Ma, a fronte di tanto consenso, anche qui ci si pone una domanda, e cioè se è nato prima Trump o il trumpismo. Se Trump, cioè, non è figlio di un grumo di elementi che ne hanno decretato la fortuna. Che non sono l’America, naturalmente, ma che ne rappresentano un’anima pulsante e viva. È l’America del razzismo e della lotta agli immigrati, possibilmente afroamericani, la cui vita può essere schiacciata letteralmente col peso del corpo di un poliziotto. È l’America dell’individualismo sfrenato che si oppone al Welfare e alla presenza paterna di uno Stato che è dalla parte dei cittadini. È l’America delle diseguaglianze e dei diritti negati. È l’America del laissez faire spinto, del rifiuto delle regole, anche di quelle che impediscono la diffusione del Covid. È l’America del negazionismo più pericoloso, che manda però a morire migliaia di cittadini infettati e privi di cure, mentre il presidente ostenta la sua vittoria sul virus, ottenuta con cure milionarie. È l’America del machismo, di quel machismo che ha autorizzato il presidente a irridere Hillary Clinton, incapace di soddisfare il marito e dunque incapace di soddisfare il suo Paese. È l’America delle differenze di genere che trova normale ritenere “una seccatura la gravidanza di una donna che lavora” (parole di Trump). È l’America che fa il verso a una persona con disabilità e che si dichiara contraria ai matrimoni gay. È l’America ottusa e conformista che esprime la sua anima in un uomo che, nonostante tutto, ha preso 71 milioni di voti, nonostante le scempiaggini perpetrate sulle spalle dei cittadini correi, ma anche di cittadini contrari alla sua politica, e che ha rischiato di vincere. Non si sa quanto potrà incidere Biden e quanto dirompenti saranno le sue svolte e quanto riuscirà a confezionare una nuova anima agli americani. Trump ha perso, ma il trumpismo, come il berlusconismo, sopravvivrà a lungo e continuerà ad essere lo specchio di una cultura oscurantista, che si nutre di paura e di odio. L’importante, però, che in questo momento, non sia quella prevalente. Lunga vita a Biden e a Kamala.