«Se insegnare fosse facile, allora l’istruzione sarebbe una passeggiata». Quanto mai significative le parole del pedagogista australiano, John Hattie, in questi giorni segnati dalla pandemia, in cui assistiamo a una metamorfosi del sistema-Scuola.

Da un anno studenti, famiglie e docenti hanno familiarizzato con due acronimi, a buon diritto, entrati nella già nutrita schiera esistente in ambito scolastico: DAD (Didattica a Distanza, d’emergenza) e la ben più caotica DDI (Didattica Digitale Integrata). Non è semplice generalizzare sull’argomento perché si tratta, in ogni caso, di un processo di innovazione didattica che stiamo vivendo-subendo, né è possibile ora tirare le somme sulla base dei soli feedback attuali. Possiamo condividere, però, un dato con Margareta Gruber cioè «che la pandemia rende visibili, e le accrescerà, le disuguaglianze del nostro mondo e le sue ingiustizie».

L’osservazione è ancora più vera nella Scuola, tanto che un’overdose di DAD e DDI potrebbero farne «una fucina per élite, che incrementerà i popoli superflui» (Caligiuri). Se da un lato, le schizofreniche chiusure e riaperture degli Istituti scolastici sono state determinate da Brescia, “epicentro” italiano della pandemia, sino alla Calabria “maglia nera della sanità”, dal volere tutelare il diritto sovrano dei cittadini alla salute, dall’altro c’è qualcosa che non torna: a confermarlo sono i primi contributi dati nella nuova pubblicazione “Bambini, adolescenti e Covid-19. L’impatto della pandemia dal punto di vista emotivo, psicologico e scolastico” (Erickson 2021) in cui si legge che «la chiusura prolungata delle scuole e il passaggio alla DDI ha/avrà molteplici effetti diretti e indiretti sugli alunni, con ripercussioni a breve e a lungo termine. Doyle ha aperto un suo lavoro recente scrivendo che il lockdown scolastico comporterà una nuova perdita di apprendimento soprattutto per i bambini di estrazione sociale inferiore». E per quanto la scelta tra DAD, DDI o il nulla, è scaturita da un braccio di ferro obbligato con il coronavirus, a volte, sembra che l’Istituzione Scuola sia stata oltremodo penalizzata, laddove consideriamo che, di frequente, il virus è arrivato da fuori, portato da incauti comportamenti sociali diffusi. A farne le spese i nostri allievi: e se è vero che sono degli assi nell’uso delle tecnologie, dall’altro nessuno aveva spiegato a loro che quegli stessi strumenti social-glamour, di fatto, possono essere utili ai fini dell’apprendimento. È dunque necessario interrogarsi con un’urgenza sugli effetti collaterali. Gli adolescenti corrono affannati nella vita virtuale, muti nelle loro solitudini; molti vivono in condizione di isolamento emotivo e socioeconomico. Troppe le famiglie con figli con disabilità psicofisiche, per le quali la Scuola è un punto di riferimento, hanno pagato in termini di livelli elevati di burn out e percepito un minore sostegno sociale rispetto a quelle senza disabilità (Foranesi). Un traguardo niente male per la Scuola dell’inclusione, seppure non auspicato.

Roberta Zappalà