
Primo Maggio. Una data che negli ultimi anni sembra il 31 aprile, svuotata di quel pathos derivante dalle rivolte (a cominciare da quella di Chicago del 1866) e dalle lotte dei lavoratori, dall’impegno delle organizzazioni sindacali,
dal riconoscimento di diritti faticosamente conquistati, da una politica attenta al mondo del lavoro e dei lavoratori, mattone essenziale in Italia nella costruzione di una Repubblica che, come recita il primo articolo della Costituzione, è fondata proprio sul lavoro. La pandemia ha messo il “carico da 11” sulla frantumazione progressiva dei citati valori, sia per mutati indirizzi della politica nazionale che per via della cosiddetta cultura della globalizzazione, determinando la caduta della dignità del lavoro e dei lavoratori, la mutazione di questi ultimi in costi che la delocalizzazione trasforma in competitività . Oltre un milione di posti di lavoro in meno di un anno, da quando circola il virus (soprattutto quelli ricoperti da donne), nella sola Italia, sono un dramma sociale. Una realtà molto seria presente su tutto il territorio nazionale, sia al centro-nord con le tante imprese che hanno chiuso o ridotto la produttività , sia al sud, dove il lavoro è stato sempre precario e ricondotto allo zoccolo duro di PMI più piccole che medie, che annaspano pesantemente e che paradossalmente sono abituate a crisi secolari. Un Primo Maggio che nel tempo dal rosso delle bandiere si è colorato di nero, quello del lavoro così definito, riguardante autoctoni e immigrati, che vede ancora presenti espressioni di un caporalato alla luce del sole e troppo spesso tollerato, che registra quotidianamente morti sul lavoro nonostante le leggi siano vigenti, fatti di cronaca che il giorno dopo, finito l’effetto emozionale e l’eco delle commemorazioni istituzionali rientrano in un profondo oblio.

Un Primo Maggio che ci ricorda la strage di Portella della Ginestra, il retaggio dello stato di polizia che si perpetuava anche dopo la nascita della Repubblica, nel ’47, e che precedette le molte altre lotte contadine finite nel sangue, come accadde poi a Melissa nel ’49. Un Primo Maggio che – limitandoci all’Italia – vede, nelle contraddizioni dei tempi che stiamo vivendo, la crisi della compagnia aerea di bandiera, ma soprattutto il caso ex-Ilva, oggi Arcelor-Mittal, che – al pari di altri insediamenti industriali – è l’espressione della conflittualitĂ tra una necessaria sostenibilitĂ ambientale (a Taranto pienamente compromessa) e posti di lavoro che si perdono senza possibilitĂ di ricollocamento. Le politiche europee e nazionali del passato hanno chiuso le strade dello sviluppo, acuendo l’apertura della forbice tra grandi ricchezze e grandi povertĂ . C’è ora un’inversione di tendenza “forzata”, il cui regista è il Covid, che permetterà – fatta salva l’onestĂ intellettuale e non degli interpreti del film “Recovery Plan”– di ridare ossigeno ad un’Italia moribonda che piĂą di altri Paesi europei soffre le chiusure e le limitazioni proprio per via di scelte scellerate che non sono certo dell’altro ieri. E, di conseguenza, altra conflittualitĂ tra una riapertura delle attivitĂ , che possono rimettere in moto il motore italiano (anche se non sarĂ mai quello di una Ferrari) e la salvaguardia e la tutela della salute, principio basilare anch’esso, al pari del lavoro, contemplato nella Costituzione (art.32). Le scelte sono difficili e le percentuali di errore in ogni caso molto alte. L’attuale governo, forse ispirandosi a Francesco De Gregori nel suo brano “Buffalo Bill” (“se avessi potuto scegliere tra la vita e la morte avrei scelto l’America”), “influenzato” (eufemismo) da una certa parte della politica oggi in maggioranza, “tra la borsa e la vita” – come evidenzia il saggista Tomaso Montanari – sceglie la borsa, anzi, la Borsa, che equivale all’America di De Gregori. Il Primo Maggio non può non condurre, quale dinamica dei tempi del lavoro (quando c’è) al sistema previdenziale che – al pari di tutto ciò che interferisce sulla qualitĂ e sulla dignitĂ della vita dei lavoratori, è stato anch’esso depauperato dai valori di base e da molti diritti acquisiti in passato, aprendo la strada verso una societĂ mediamente sempre piĂą povera, umiliata e offesa, fatta di giovani che diventeranno vecchi senza futuro.
Letterio Licordari