Sono passati ormai alcuni mesi dall’implementazione formale ed effettiva del Brexit. E cioè, dall’attuazione di quel complesso processo politico, economico, legale e, in ultima analisi, socio-culturale che sta gradualmente consentendo al Regno Unito di uscire completamente dall’Unione Europea (d’ora in poi ‘UE’).

Ora, il fatto che la gigantesca macchina che chiamiamo Brexit sia ormai stata completamente innescata, e che abbia cioè iniziato il suo lungo viaggio che la conduce fuori da qualsiasi progetto europeista, è ormai più o meno evidente a tutti. Che cosa ciò di fatto significhi, soprattutto in termini socio-culturali, non sembra invece essere ancora chiaro ai più. Britannici inclusi. I quali, per quanto controintuitivo ciò possa apparire, si mostrano difatti poco inclini a discutere l’argomento. Inoltre, sembrerebbe che, ad un’assenza di chiarezza riguardo al significato sociale e culturale del fenomeno Brexit, si accompagni anche una profonda mancanza di desiderio di comprensione dell’evento stesso. E ciò sembra valere, paradossalmente appunto, soprattutto nel caso degli stessi britannici. Molto spesso, infatti, il loro disinteresse manifesto all’approfondimento e al confronto sull’argomento sembrerebbe suggerire l’idea che, in fondo, la faccenda non li riguardi più di tanto. Da questo punto di vista, è come se il fenomeno Brexit, inteso in senso politico, economico e istituzionale (della cui gestione, ovviamente, non si occupa il comune cittadino), fosse poi totalmente scollato dalla sua naturale e profonda dimensione sociale e culturale (la quale, invece, investe in vari modi direttamente qualsiasi comune cittadino o membro effettivo di una data collettività). Proprio in quanto tale, infatti, il Brexit è prima di tutto un fenomeno organico. E cioè, un fenomeno che coinvolge e investe tutta una cultura, e che trova sia la sua origine che il suo completamento proprio all’interno del vissuto storico e sociale di individui in carne e ossa. In questo senso, il Brexit, prima ancora di essere un mero processo burocratico e istituzionale, è dunque un fenomeno socio-culturale. Come sarebbe quindi spiegabile questa profonda mancanza di comprensione e di interesse a riguardo? Soprattutto da parte della società, della stessa cultura media britannica? Quali sarebbero dunque le ragioni di una diffusissima riluttanza all’approfondimento e al confronto intorno alla tematica Brexit? Da che cosa potrebbe derivare la stessa mancanza di comprensione sostanziale, soprattutto a livello sociale, di un fenomeno così pregnante come questo? Più in particolare, sarebbe possibile individuare, attraverso gli strumenti della psicologia sociale, una serie di analisi plausibili a riguardo? È cioè possibile rintracciare delle precise ragioni di natura socio-culturale che sarebbero alla base di questi atteggiamenti?

Cominciamo con una breve rassegna di alcuni degli eventi più strettamente politico-istituzionali che hanno inaugurato la prima fase post-Brexit, proprio in questi giorni e in queste settimane. È infatti evidente che alcuni degli effetti importanti del Brexit sono già emersi con forza in questi mesi. Basti pensare al durissimo scontro fra Gran Bretagna e UE, avvenuto durante il primo trimestre del 2021, riguardo alle forniture e alla distribuzione dei vaccini in Europa. Un vero e proprio scontro titanico, per molti versi ancora in corso, e dai risvolti molto controversi, con tratti sicuramente oscuri e estremamente spregiudicati. Si tratta infatti di una grave vicenda che, con molta probabilità, sarà destinata a segnare per lungo tempo i rapporti fra la Gran Bretagna e l‘UE, soprattutto dal punto di vista strettamente geopolitico. Un ulteriore esempio immediato di effetto post-Brexit è rappresentato dal pericoloso riaccendersi della storica ‘questione irlandese’, che vede proprio in questi mesi il riemergere di antichissime tensioni sociali all’interno dei confini che regolano il delicatissimo equilibrio fra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda. Inoltre, sono da non sottovalutare affatto le primissime forme di espulsione di alcuni cittadini europei dal territorio britannico in seguito alle nuove procedure di controllo sull’immigrazione, implementate dall’Ufficio per gli Affari Interni britannico (il cosiddetto Home Office). Ciò che preoccupa già da ora l’UE non è tanto l’espulsione di per sé di tali cittadini europei, ma sono piuttosto le modalità con cui la procedura viene implementata. Non è infatti chiara la motivazione per cui tali cittadini europei debbano subire, prima dell’espulsione, una vera e propria detenzione (ovviamente forzata e che si protrae anche per alcuni giorni) in appositi centri per la rimozione degli immigrati (Immigration Removal Centres). Sono infatti già stati registrati diversi casi di cittadini europei che hanno dovuto subire questa forma di detenzione direttamente all’arrivo negli aeroporti britannici. Secondo quanto finora riportato da coloro i quali non avrebbero diritto di ingresso o di permanenza sul suolo britannico, le procedure attuali prevedono il sequestro del passaporto e dei propri effetti personali, incluso chiaramente il cellulare, e l’impossibilità di lasciare il paese anche offrendosi di acquistare, ovviamente a proprie spese, un biglietto di ritorno immediato nel proprio paese europeo d’origine. Ci sono poi numerosi dettagli a riguardo, che necessitano certamente di importanti chiarimenti da parte del ministero degli interni britannico, che sembrerebbero delineare dei risvolti alquanto oscuri e controversi. Secondo varie testimonianze, ancora solo parziali e frammentarie, ad alcuni soggetti sarebbe stato non solo impedito l’ingresso ingiustamente (in quanto in possesso di esplicito invito a colloquio lavorativo), ma sarebbe persino stata negata la possibilità di mettersi in contatto con l’ambasciata del proprio paese d’origine.
Ulteriori effetti già del tutto tangibili del Brexit sono poi le recenti dispute e le tensioni molto accese sorte con la Francia, riguardo al rispetto degli accordi che garantiscono la continuazione dell’utilizzo, per scopi ittici, delle acque territoriali che afferiscono a Jersey, un’isola che fa parte dell’arcipelago delle Channel Islands, situata a soli poco più di 20 km dalle coste francesi e dalle quali dipende la sua totale fornitura di energia elettrica. Dal punto di vista amministrativo, le Channel Islands non farebbero parte del Regno Unito. Tuttavia, in virtù di antiche tradizioni istituzionali risalenti al XIV secolo, e in gran parte ancora gelosamente conservate e mantenute vive dai britannici, queste isole sono dei ‘territori dipendenti’ (più precisamente delle ‘dipendenze’, e cioè dei possedimenti di proprietà) della Corona britannica. In quanto tali, esse non sono delle nazioni sovrane, per cui la loro difesa è ancora oggi affidata (dalla Corona, appunto) al governo centrale britannico. È curioso notare come la conquista di tali territori avvenne proprio in seguito alla conclusione della famigerata Guerra dei Cent’anni. Un lunghissimo conflitto che durò per più di un secolo e che vide protagonisti (non a caso) proprio gli inglesi e i francesi, ai quali appunto le isole vennero allora sottratte, nonostante la schiacciante vittoria complessiva della Francia, al termine della lunghissima guerra. E tutto ciò a testimonianza del fatto che, a parte i ‘corsi e ricorsi storici’, probabilmente quegli animi non si sono in fondo mai del tutto placati, neanche a quasi 600 anni di distanza. Ulteriori effetti post-Brexit sono poi rappresentati dalle numerose battute d’arresto che hanno subito vari settori commerciali, tanto britannici quanto europei, sul fronte dell’import/export. L’impatto negativo, derivante dall’introduzione di nuove normative e di complesse procedure burocratiche legate al Brexit, è stato infatti molto sentito all’interno di tali settori del commercio.

Se dunque, sul piano istituzionale, giuridico ed economico, sono molti gli effetti già espliciti ed evidenti del Brexit, sul piano più strettamente socio-culturale sembra invece registrarsi, almeno apparentemente, una diffusa controtendenza: la società britannica sembra quasi totalmente concentrata su di una timida forma di accettazione passiva, taciturna e spesso addirittura acritica del fenomeno Brexit. È come se l’argomento Brexit fosse in grado di far precipitare qualsiasi conversazione nei più profondi abissi dell’imbarazzo e del senso di inadeguatezza di fronte all’argomento. E questo sembra valere persino per la stragrande maggioranza delle persone che sono pronte a dichiarare apertamente di aver votato convintamente contro l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa (in occasione del referendum svoltosi nel giugno del 2016). Oggi, nel 2021, queste stesse persone, nella stragrande maggioranza dei casi, si limitano soltanto a constatare, senza ormai neanche più commentare in alcun senso, l’ormai inevitabile implementazione e realizzazione del progetto Brexit. Da un punto di vista strettamente socio-culturale, si ha infatti spesso la netta sensazione che la cultura media britannica si senta fortemente inadeguata a formulare un qualsiasi giudizio, più o meno approfondito, riguardo ad una tematica di questo tipo.
Ma quali potrebbero essere le ragioni di questa forma di apparente apatia, di senso di profonda inadeguatezza nell’affrontare, per lo meno socialmente, un tema come il Brexit? Da che cosa dipenderebbe questa forma di mancanza di un vero e proprio giudizio organico e definito, da parte del popolo britannico, nei confronti di un fenomeno così ricco di promesse (la cosiddetta Global Britain) volte a cambiare e vincolare nel profondo il presente ed il futuro della Gran Bretagna?
Si potrebbe pensare che, da un certo punto di vista, il Brexit non avrebbe fatto altro che istituzionalizzare una volta per tutte quell’antico senso di non-appartenenza al continente europeo che ha di fatto sempre caratterizzato la cultura britannica. È come se quella forma di “us and them” (che probabilmente è sempre esistito fra, rispettivamente, britannici e continentali) fosse ora non solo sancito formalmente e riconosciuto pubblicamente (in senso cioé istituzionale), ma che fosse anche finalmente consegnato alla storia, una volta per tutte. Non è affatto secondario far notare questo aspetto, poiché molto spesso la storia ci insegna che fenomeni di una tale portata possono pienamente realizzarsi solo laddove vi è già un terreno fertile, pronto ad accogliere il seme di quella visione, di quella prospettiva, di quella promessa. Se questo è vero, sarebbe infatti del tutto plausibile interpretare il Brexit, inteso come fenomeno socio-culturale, come quel risultato politico e ideologico reso possibile proprio in virtù di un tessuto sociale e culturale già lì pronto ad accoglierlo. E cioè già tendenzialmente favorevole alla sua piena maturazione e accettazione. Per tentare sinteticamente di corroborare un’analisi di questo tipo, basterebbe solo considerare la vittoria schiacciante dei conservatori (soprattutto ai danni dei laburisti) in Inghilterra, avvenuta proprio in questi giorni, in occasione delle cosiddette Local Elections. Un risultato che riflette poi con coerenza il larghissimo e costante consenso di cui gode il solido governo conservatore a cui fa attualmente capo Boris Johnson. Tutto ciò, vale la pena ricordarlo, nonostante i gravissimi errori di valutazione verificatisi durante tutta la prima fase dell’emergenza Covid. Errori che si sono protratti e accumulati addirittura fino all’inizio del 2021, e che hanno poi contribuito a portare alle estreme conseguenze la crisi profonda del sistema sanitario nazionale britannico. Una crisi peraltro in atto già ormai da diversi decenni. L’insieme di questi e molti altri fattori (qui intenzionalmente tenuti fuori per ragioni contestuali e di spazio) ha inoltre favorito il verificarsi di una delle peggiori performance registrate in Europa nell’affrontare la cosiddetta Covid Crisis. Una performance che ha appunto contribuito a far sì che la Gran Bretagna registrasse un’enorme quantità di morti per Covid-19, il cui valore numerico attualmente supera largamente i 151.000 decessi (tali dati si riferiscono ai decessi calcolati e definiti ufficialmente come ‘deaths with COVID-19 on the death certificate’).
Questo quadro generale ci fornisce ulteriore conferma appunto del fatto che, nonostante tutto, sono proprio i conservatori inglesi, e cioè i veri e propri artefici e fautori del progetto Brexit, a godere comunque di larghissimi consensi all’interno dell’elettorato inglese. In altri termini, il popolo inglese e, più in generale britannico (si veda ad esempio il DUP, il più importante partito unionista dell’Irlanda del Nord, da sempre strenue e fedele difensore della Corona inglese), sembrerebbe vedere il proprio sistema di valori coincidere con la maggior parte dei princìpi cardine della visione offerta dal conservatorismo inglese. Una visione che, come appunto vedremo fra poco, ha radici solide, antiche e profonde all’interno della cultura britannica.
Ora, benché tutto ciò possa essere utile al fine di comprendere meglio il diffuso sentimento di accettazione e, in parte, di giustificazione del progetto Brexit, molto rimane ancora da dire riguardo a quel senso di inadeguatezza e, in certa misura, di profonda impreparazione che moltissimi britannici manifestano di fronte ad un tema come questo. Com’è possibile che una larga parte della base sociale, che rappresenta poi di fatto la cultura media britannica, si mostri così profondamente riluttante ad interrogarsi in modo critico e approfondito su di un fenomeno socio-politico così pregnante e vincolante per l’intera collettività? Per quale motivo la società britannica, in particolare inglese, sembra essere così riluttante ad interessarsi ad un tema così importante per il loro stesso presente, in quanto nazione, e per il futuro della loro stessa identità culturale? In ultima analisi, di che cosa si alimenta il pensiero della cultura di massa britannica al giorno d’oggi? Quali sono cioè i desideri, le attese, i progetti, i sogni che nutrono e danno linfa vitale alla quotidianità della collettività, della cultura media che popola il Regno Unito? E qual è l’immaginario, la concezione che fornisce la base culturale alla visione specifica di questo popolo? Per quanto ampio e variegato possa essere il dominio che soddisfa tali interrogativi, e persino apparentemente così controintuitivi, crediamo che siano proprio queste le domande che è necessario porsi per cercare di comprendere il contesto socio-culturale in cui avvengono fenomeni come quello che stiamo qui analizzando. Sembra infatti del tutto plausibile ipotizzare che la radice profonda del problema vada ricercata all’interno della trama psicologica che determina la struttura stessa del tessuto sociale. È dunque proprio all’interno delle trame e delle dinamiche della psicologia sociale britannica che va ora rivolta la nostra attenzione.
In una celebre intervista, rilasciata per il Sunday Times nel maggio del 1981, in cui si sintetizzavano con estrema lucidità le metodologie che avrebbero poi avuto l’esplicito obiettivo di scardinare, colpendola direttamente al cuore, qualsiasi forma di visione collettivista dello stato e dell’organizzazione della vita sociale e civile delle nazioni britanniche, Margaret Thatcher afferma, in modo quasi lapidario e profetico: “Economics are the method; the object is to change the heart and soul”. Vale la pena sottolineare esplicitamente la scelta, probabilmente non casuale, delle parole usate: l’obiettivo era di provocare un cambiamento che avrebbe colpito e investito direttamente “il cuore e l’anima” degli individui. Attraverso metodologie specifiche, lo scopo programmatico di questa nuova visione era dunque quello di spingersi fin nell’intimo del vissuto esperienziale dell’individuo, penetrando dritto nel suo “cuore” e nella sua “anima”, in modo da determinarne poi il cambiamento proprio dal suo interno. Cerchiamo ora di analizzare questi concetti fondamentali.
Alla visione collettivista, la Thatcher degli anni ‘80 (celebre e storica leader dei conservatori di quella lunga ed intensa stagione politica, i cui effetti sono ancora tangibili al giorno d’oggi), contrapponeva l’esigenza profonda e urgente della costruzione di una prospettiva politica, economica e sociale radicalmente alternativa rispetto al passato. La prassi socio-politica thatcheriana si rese cioè protagonista dell’esigenza di una nuova visione da diffondere e infondere direttamente nel cuore della cultura britannica. La costruzione di questa nuova prospettiva da offrire al popolo britannico avrebbe avuto come suo nucleo fondamentale non le ‘astratte’ necessità imposte dalla società, dalla collettività, ma le esigenze, le aspirazioni, i sogni del singolo, dell’individuo. Sul piano socio-culturale, il progetto ideologico del conservatorismo thatcheriano aveva infatti lo scopo esplicito di porre il singolo, l’individuo stesso al centro delle priorità della vita pubblica e civile. Ciò, chiaramente, a diretto discapito delle necessità imposte dalla collettività e a svantaggio delle esigenze più eterogenee dei vari gruppi sociali. In altre parole, qualsiasi forma di ‘sentire comune’ o ‘collettivo’ doveva essere sostituito dalle necessità prioritarie imposte dal singolo individuo. Ognuno dei quali avrebbe rappresentato una vera e propria cellula a sé stante, sganciata dalla collettività ma comunque sempre accompagnata dalla sua propria storia personale. Una storia costituita appunto da aspirazioni, priorità, sogni e desideri su cui ciascuna unità individuale fonda il suo specifico sistema di valori. In questo modo, la forza, la spinta vitale che fornisce la linfa necessaria all’agire quotidiano non dovrà più provenire, per così dire, dall’alto di una serie di necessità imposte dalla collettività. Dovrà invece affondare le sue radici proprio nel vissuto esperienziale dell’individuo stesso. Laddove queste forze e queste spinte individuali entreranno in conflitto fra loro, saranno poi le dinamiche competitive a determinare l’esito conclusivo dello scontro. L’individualità che si dimostrerà più adatta ad imporsi nel contesto di quel conflitto specifico, sarà poi quella che si affermerà con successo e che, in alcuni casi, servirà anche da esempio e da modello per altri individui. Come affermerà infatti la Thatcher solo qualche anno più tardi “…and who is society?There is no such thing! There are individual men and women […] and no government can do anything except through people, and people look to themselves first”. Secondo tale visione dunque, le esigenze, le risorse, i bisogni, le priorità, i desideri (proprio in quanto tali) sono sempre e comunque determinazioni totalmente individuali, e mai collettive. Coerentemente a tale concezione, sul piano invece più strettamente politico, il thatcherismo aveva quindi lo scopo di indebolire fortemente qualsiasi visione di matrice ‘social-collettivista’, con l’obiettivo di porre le basi per una progressiva, ma allo stesso tempo radicale, riforma del settore pubblico e, soprattutto, del welfare state.
Questa visione è proprio ciò che ha fornito, all’interno delle trame psicologiche della società britannica, la base ideologica e culturale per la creazione e l’affermazione di cellule individuali, tendenzialmente isolate e costantemente in competizione fra loro. E cioè delle unità individuali spesso totalmente disinteressate alla costruzione, o anche solo all’approfondimento, di un sentire comune, condiviso, collettivo. Le dinamiche competitive, che hanno ovviamente come obiettivo ultimo l’affermazione dell’individuo, hanno così preso il sopravvento su qualsiasi tematica che presupponga l’analisi e la ricerca di un sentire comune, in senso proprio sociale. In ultima analisi, questa forma così pervasiva di individualismo ha trascinato gli individui stessi in un mondo sempre più solitario, isolato, utilitaristico e competitivo. Un mondo in cui rimane pochissimo spazio per la socialità e la costruzione di un sentire comune. In un mondo così individualizzato, qualsiasi forma di visione d’insieme è destinata a perdere gran parte della propria priorità e rilevanza. E in assenza di una vera e propria visione d’insieme su ciò che accade nella nostra pur sempre realtà individuale, è assai improbabile l’emergere e la maturazione di una vera e propria coscienza sociale. Il darsi stesso della coscienza sociale non può infatti prescindere da tutto ciò. Stiamo parlando di una coscienza sociale discussa, dibattuta, vigilante, interrogante e interrogata, conquistata e poi rimessa in discussione e, al tempo stesso, approfondita ogni giorno, costantemente. La possibilità stessa di saper formulare un giudizio definito riguardo a ciò che accade nelle trame del nostro vissuto storico, sociale, civile, che definisce de facto la nostra quotidianità, dipende in larga misura da tutto ciò. La radice del problema qui in esame è dunque proprio questa: la possibilità di saper pensare la propria condizione individuale dipende strettamente dalla comprensione fondamentale della propria coscienza sociale, e non viceversa. È dunque la dimensione sociale a dar vita alla possibilità stessa della dimensione individuale e, ripetiamolo, non viceversa. L’individuo è dunque sempre e comunque un prodotto della collettività sociale. Come ci segnalano infatti con forza tanto la scienza quanto la filosofia (da Aristotele fino all’attuale biologia evoluzionistica), la dimensione sociale e la socialità appartengono alla dimensione naturale, istintuale della specie homo: l’individuo, allo stato naturale, non è affatto autosufficiente. La sua stessa sopravvivenza dipende infatti direttamente dalla dimensione sociale e cooperativa. L’evoluzione e l’esistenza stessa della specie homo si basa infatti su specifici meccanismi neuro-cognitivi di cooperazione sociale che ne garantiscono la sua conservazione e la sua stessa sopravvivenza. In ultima analisi, una qualsiasi visione contraria a tali dinamiche fondamentali corrisponde ad una vera e propria concezione che va esplicitamente contro natura. Ma torniamo ora al nostro problema fondamentale.
Dunque, per poter formulare un qualsiasi giudizio socio-culturale su fenomeni come il Brexit è necessario possedere una qualsiasi forma di coscienza sociale, storica e civile. Per poter avere una tale forma di coscienza è però prima necessario possedere una visione d’insieme, di stampo e matrice fondamentalmente collettivista. E cioè una concezione che sia in grado di pensare l’individuo non come unità isolata, ma come parte integrante di una collettività organica. Una collettività che non solo precede il darsi dell’individuo stesso, ma che gli consegna la possibilità stessa di definire la propria identità, la propria storia, i suoi desideri, le sue aspirazioni, i suoi sogni.
Per cercare di dar corpo e corroborare almeno in parte questa analisi, soprattutto nei termini della psicologia sociale, prendiamo come esempio il caso delle cosiddette riots che hanno investito, in modo clamoroso e violento, le maggiori città britanniche nell’estate del 2011 (per citare solo qualche dato legato a tali rivolte: più di £200 milioni in danni materiali, 5 morti, quasi 2.000 arresti, più di 200 feriti e circa 2.800 strutture danneggiate, fra varie attività commerciali e abitazioni private). Le tematiche che erano alla base di tali rivolte, che si perpetrarono e diffusero a macchia d’olio per giorni, riguardavano principalmente le problematiche legate alle profonde disuguaglianze sociali, al discrimine razziale e al senso di totale emarginazione che tuttora permea una larga parte del tessuto sociale britannico. Il fallimento, sul piano sociale, di tali rivolte è da ricercarsi nella totale assenza di una qualsiasi visione, alternativa a quella presente, che fosse in grado di delineare e identificare proprio quel sentire comune e collettivo di cui parlavamo sopra. In altri termini, gli individui che organizzarono e realizzarono le riots non cercavano in fondo di combattere un sistema che, di fatto, li lasciava esclusi, emarginati, tanto sul piano economico quanto su quello sociale. Quelle folle impazzite che sfondavano le vetrine dei negozi, impossessandosi di televisori, gioielli, vestiti, scarpe di marca e qualsivoglia altro bene di consumo, mostravano la loro rabbia e la loro violenza non per combattere il sistema stesso di cui erano vittime. Né tantomeno per manifestare con forza e violenza il loro totale rifiuto e disappunto nei confronti di un sistema socio-economico che crea e alimenta profonde diseguaglianze da decenni. In fondo, nulla di tutto ciò era alla base di quelle rivolte. Ciò che emerse invece fu la prova tangibile, sul piano sociale e culturale, della totale assenza di un pensiero comune, collettivo. E cioè, un pensiero in grado di catalizzare e organizzare quei desideri, quella rabbia e quelle forze vitali individuali per condurle verso una visione alternativa. Il totale fallimento di quelle rivolte si legge chiaramente anche negli stessi atti commessi da quelle forme di ‘schegge individuali impazzite’, volte fondamentalmente ad impossessarsi di ogni sorta di bene di consumo, in modo assolutamente spasmodico. In ultima analisi, ciò che si rese manifesto era quindi un paradosso: la totale assenza di visione e di pensiero sociale e collettivo proprio nel cuore della società stessa. Tali rivolte mostrarono dunque chiaramente il fatto che quelle fasce sociali, che vivono maggiormente il peso delle disuguaglianze socio-economiche, non volevano affatto sovvertire il sistema. Al contrario, desiderano invece disperatamente farne parte. E ciò è appunto confermato anche dalla natura degli stessi atti commessi durante le riots. Il desiderio di possesso spasmodico di beni di consumo che, fra le altre cose, conferisce profondo senso di potere all’individuo, aveva totalmente sostituito la possibilità di visione e comprensione della radice stessa del dolore, delle ansie e del malessere di quegli individui. In questo senso, si potrebbe infatti pensare ad una vera e propria forma di sublimazione. Difatti, ciò che realmente esprimeva quella miriade di cellule individuali impazzite (mentre si impossessavano voracemente di ogni sorta di bene di consumo, strappato alle vetrine), non era altro che il desiderio disperato di essere anche loro assimilati dal sistema stesso che cercava di soffocarli. Il loro violento grido di dolore, e quella furia cieca, rendevano manifesto il totale disappunto e la rabbia derivante dal fatto di essere esclusi da un sistema di cui ognuno di loro, a vario titolo, desiderava invece disperatamente far parte. E a qualsiasi costo. Questo stato di cose non fece altro che mostrare in maniera drammatica in che senso la totale assenza di un pensiero, di una visione d’insieme e collettiva, potesse portare ad una vera e propria implosione della stessa base sociale di questo paese.
A questo proposito, come suggeriscono con forza e profondità alcune ‘meditazioni heideggeriane’, “L’assenza di pensiero è un ospite inquietante che si insinua dappertutto nel mondo d’oggi” (M. Heidegger). L’aspetto “inquietante” deriva proprio dal fatto che, un individuo privo di pensiero, si trova totalmente impreparato di fronte al suo stesso presente. E cioè, impreparato a comprendere la sua stessa condizione, il suo stesso vissuto esperienziale quotidiano. Di conseguenza, un individuo di questo tipo è dunque incapace di proiettarsi nel suo stesso futuro. Poiché, affinché ciò sia possibile, è necessario essere appunto in grado di saper formulare un giudizio più o meno plausibile sul proprio presente. Ma per comprendere il proprio presente, l’individuo ha la necessità di conoscere il proprio passato, la propria storia. E la storia si dà soltanto all’interno di una dimensione collettiva.
Detto ciò, per continuare con le nostre meditazioni heideggeriane, è altrettanto vero che “Può restare incolto, però, solo ciò che in sé è motivo di crescita, come ad esempio un campo coltivabile. Un’autostrada su cui nulla cresce non potrà mai diventare incolta. […] Allo stesso modo allora possiamo abbandonarci alla povertà di pensiero o addirittura cadere nell’assenza di pensiero solo perché, essendo uomini, possediamo in fondo al nostro essere la capacità di pensare, […] siamo insomma determinati al pensiero. Infatti, solo ciò che possediamo già, consapevolmente o inconsapevolmente è ciò che possiamo perdere” (M. Heidegger). In quanto animali capaci di sviluppare un pensiero riflessivo, esiste dunque sempre una profonda speranza, una promessa, all’interno della nostra stessa condizione umana. Proprio anche in senso biologico, naturale. È cioè in virtù della fertilità stessa del terreno su cui si dipana naturalmente la dimensione umana che è comunque possibile immaginare un plausibile riscatto positivo, volto cioè al miglioramento e all’emancipazione della nostra condizione e del nostro vissuto esperienziale.
Per concludere, abbiamo visto sopra in che senso la dimensione sociale appartenga alla natura stessa della nostra specie. La dimensione sociale implica inoltre, per sua stessa natura, una serie di dinamiche e di dispositivi cooperativi all’interno della collettività che costituisce il dominio stesso del sociale. Senza dinamiche cooperative, infatti, il dominio del sociale è destinato a collassare e a implodere su sé stesso. E questo sembrerebbe essere plausibile anche in senso biologico, evoluzionistico, oltre che filosofico. Si è inoltre mostrato che un individuo incapace di pensarsi come il risultato, il prodotto di una collettività, è fondamentalmente anche incapace di autodeterminarsi e di tentare di comprendere la sua stessa condizione, i suoi stessi desideri, i suoi sogni, i suoi dolori, i suoi malesseri, le sue aspirazioni, le sue aspettative. Un’unità individuale incapace di pensarsi come il prodotto di una collettività è cioè, in ultima analisi, un individuo privo di storia. Una sorta di unità cellulare a cui manca la fondamentale connessione, l’anello di congiunzione, fra il proprio vissuto individuale e la storia che ha di fatto reso possibile quel suo stesso vissuto. Un individuo deprivato persino della sua dignità di provare nostalgia. Poiché non si può essere nostalgici di un passato che non si conosce.
Fabrizio Bonacci