Se nella “Metamorfosi” di Kafka l’uomo diventa un insetto, in quella di Luciano Canfora ci si interroga sulla metamorfosi del Pci a cento anni dalla scissione di Livorno.

“Il Casinista” riporta la recensione a “La metamorfosi” di Luciano Canfora (edito da Laterza) pubblicata sulla “Rivista storica del socialismo” dal prof. Gaetano Colantuono. Si tratta di un argomento molto interessante che ripercorre in chiave critica la storia di quello che è stato un “grande partito” ma spesso non un “partito grande”.

«Nella produzione sul centenario della scissione di Livorno e della contestuale nascita del PCdI (indebitamente fatta passare da certa pubblicistica, pur di area liberale, per nascita della sinistra tout court), assume un discreto rilievo il libello – per le dimensioni, non per la densitĂ  dei contenuti esposti – del Canfora, che prosegue così una peculiare ricerca trentennale sulla “rielaborazione del lutto” della fine del PCI, iniziata almeno a partire dal suo Marx vive a Calcutta (Bari 1992). 

A dispetto della mole il volume, nell’evitare i due atteggiamenti estremi della commemorazione centenaria (visione apologetica, la cd. “storia sacra”, e liquidazione maramaldesca o all’insegna della storia criminale), consegna una serie di contributi, peraltro non inediti nella riflessione dell’autore e in certi settori politico-culturali. L’autore, infatti, fa propria la duplice diagnosi di Luciano Gallino dell’attuale vittoria delle classi possidenti (si aggiunga: confermata dalla parte intellettualmente onesta delle stesse, come Warren Buffet) nella lotta fra classi e dell’europeismo come copertura ideologica di una realtĂ  “iperliberista” (p. 3). All’altro capo della parabola di tale vittoria storica si pongono le vicende che cento anni fa avevano spinto migliaia di militanti a fondare un partito concorrente della precedente organizzazione, proprio mentre – si aggiunga – montava la reazione affidata alle violenze fasciste. 

Il titolo allude a una diffusa immagine nella ricostruzione critica di un partito, l’idea di “progressive trasfigurazioni” (p. 4) o di una “mutazione genetica” (p. 39): l’archetipo può essere agevolmente individuata, a mio avviso, nella polemica interna al PSI di Riccardo Lombardi (fine anni Settanta), prontamente rilanciata, extra moenia e strumentalmente, da Eugenio Scalfari sulle colonne del suo quotidiano. In ogni caso è esclusa la convinzione – da altri ancora pervicacemente ribadita – di un continuismo nella storia del PCI e dei suoi eredi maggioritari, a cominciare dalla stessa genesi di quella storia, poichĂ© è rilevata l’alteritĂ  fra il PCdI dei primi anni Venti e il PCI costruito dal ’44. Una discontinuitĂ  è inoltre individuata fra le linee politiche di Togliatti e di Berlinguer. Lo stesso richiamo ad una tradizione ideologica forte (si aggiunga: in parte artefatta, made in Comintern), quella marxista-engelsiana e poi gramsciana, non ha preservato il gruppo dirigente comunista italiano dalla tendenza al progressivo scarto da essa (ma, si aggiunga, essa può costituire una risorsa cui attingere per nuove formulazioni, una sorta di depositum sapientiae). 

Il volume dedica pagine molto interessanti al “partito nuovo” e alle fonti togliattiane, col suo insistente richiamo alla novitĂ  introdotta dalla fine del fascismo in Italia e alla necessitĂ  di un raccordo con le altre forze democratiche, prima fra tutte quella di ispirazione cattolica. La tesi canforiana è che giĂ  nel maturo Togliatti fosse chiaro un passaggio dal primigenio leninismo ad una soluzione socialdemocratica classica (una sorta di ritorno all’ultimo Engels e, si aggiunga, ai suoi rapporti in Italia con Turati). Tali premesse non furono perseguite dai successori nĂ© tanto meno da Berlinguer, di cui si segnalano le notevoli oscillazioni di strategia politica: dopo lo “strappo” (autentico) dal modello sovietico, nessuna convincente prospettiva alternativa seppe proporre il segretario. Pochi decenni dopo dalla conclamata “diversità” berlingueriana si passerĂ  alla ricerca spasmodica di un riconoscimento di attendibilitĂ  da parte delle classi possidenti e di una “normalità”. L’europeismo (si aggiunga: con l’implicito vincolo esterno per un paese ritenuto incapace di governarsi) diventerĂ  un potente strumento in tal senso. 

Il quesito finale, se “potrà la odierna socialdemocrazia […] reggere alla prova della vittoria planetaria del capitale finanziario”, va considerato solo in minima parte retorico e può trovare – sia concesso glossare – una proposta alternativa: se forse né di neo-leninismo né di una socialdemocrazia le classi popolari e l’ambiente in cui esse vivono non abbiano bisogno, ma di un radicale socialismo di sinistra.

Gaetano Colantuono