Da più parti si legge che lo scioglimento coatto di gruppi politici altrettanto coatti (nell’altro senso del termine) non risolverebbe il problema degli “estremismi estremi”. E’ comunque un problema, perché bisognerebbe far coesistere lo stato di diritto con quanto recita la Costituzione e con i dettami della “Legge Scelba” più volte in questi giorni rispolverata, rammentando che nell’immaginario collettivo proprio Scelba e il suo governo, al pari di quello di Tambroni, erano etichettati come “tardoreazionari” e “tardofascisti”!

In effetti, senza scomodare Giambattista Vico e i suoi corsi e ricorsi storici, che vorremmo applicati, “cartesianamente”, a fatti della storia ben più sereni, il pericolo che possa essere reiterato l’iter iniziale dell’ascesa al potere di facinorosi, fanatici e violenti, a distanza di cento anni, non è da escludere o un’ipotesi da non trascurare. Lo scioglimento, al contrario di quello che i mafiosi e gli ‘ndranghetisti fanno nell’acido per eliminare chi dà fastidio, diventerebbe solo un fatto formale e non sostanziale, non escludendo la possibilità di ricostituzioni dei gruppi. In effetti, per molti versi, Forza Nuova, Casapound e altre organizzazioni sono assimilabili alle “società satellite” dell’azienda-madre, intendendo – nella fattispecie – per aziende-madri Fratelli d’Italia e la Lega. Dette organizzazioni spesso hanno fatto e fanno comodo e contribuiscono a formare gli “utili” di un “bilancio consolidato” in termini di consensi. Solo che Meloni e Salvini, evidentemente cresciuti sotto l’aspetto “diplomatico”, hanno ben glissato e non hanno inteso prendere nette e decise distanze dai gruppi oggi sotto accusa.
Più che allo scioglimento coatto, quindi, bisognerebbe pensare all’allontanamento e alla pubblica gogna da parte dei partiti di riferimento. Ma potrà mai avvenire? Oggi c’è stato il pretesto del “no-vax”, ieri c’è stato quello dell’immigrazione, domani ci sarà qualcos’altro per fomentare un popolicchio bue, anzi, vitello, per ottenere visibilità e invitare alla guerriglia.

La democrazia in Italia debuttò con molti ex-fascisti riconvertiti nella Dc e in altri partiti e con comunisti staliniani. Le lotte non sono state solo pittoresche come nel dualismo Peppone-Don Camillo, nonostante la Costituente e la comune voglia di far riemergere l’Italia dalle macerie. Siamo portati a “benedire” quella Prima Repubblica nonostante molti guasti attuali siano stati generati in quel periodo (in contrapposizione ad importanti risultati sociali ed economici) solo perché da quando facciamo il raffronto con l’Italia dai primi anni novanta in poi il paragone culturale, anche morale, ma soprattutto politico fa pendere l’ago decisamente verso il passato.

Gli anni sessanta si chiusero con l’autunno caldo del ’69, ma già tante bombe erano scoppiate. Agli inizi degli anni settanta la rivolta di Reggio Calabria, poi cominciò il macello e si insinuarono nella realtà sociale e politica le Brigate Rosse. E ciò accadde mezzo secolo fa. Tante vittime, da politici a militari, da studenti a sindacalisti. Lo Stato divenne impotente, qualcuno – nelle ipotesi di accordi stato-mafia – ha ipotizzato anche accordi con le BR. I no-global, nello scorso decennio, sono stati e sono un fenomeno a parte, più vittime che attori, se vogliamo, e sostanzialmente distanti da aziende-madri. Però in quella Prima Repubblica il Pci da una parte e il Msi dall’altra in più occasioni rimarcarono le distanze da coloro che andavano in piazza per seminare odio e a volte anche sangue. Poteva fare comunque comodo, ma oltre alla forma si era vista anche la sostanza.
Letterio Licordari