Un film coreano senza violenza è come un cielo senza stelle. Te l’aspetti, e se non la trovi ci resti quasi male. In questo senso Squid Game, la serie Netflix di cui parlano tutti, non si lascia pregare per far scorrere plasma a fiumi e disseminare ovunque brandelli di arti spappolati, bulbi oculari, denti e quant’altro di splatter si possa desiderare. Il problema semmai è che a guardarla sono soprattutto teenager e preadolescenti, nonostante il divieto ai minori di 14 anni – che sui canali di streaming è notorio sia un cane che abbaia e non morde.

Dalla Corea con furore, record e isteria collettiva

Intanto Squid Game ha giĂ  superato il record della Casa di Carta e questo fulmineo successo è dovuto proprio al seguito degli spettatori piĂą giovani, quelli che poi su TikTok emulano i protagonisti della serie mimandone le imprese o rilanciando la tradizionale ricetta asiatica dei biscotti Dalgona (i toffee al caramello oggetto di uno dei piĂą fighi death game della storia, che grazie alla serie oggi in Corea del Sud stanno registrando un boom di richieste con code lunghissime davanti ai negozi che li vendono). Una vera e propria isteria collettiva di cui stanno beneficiando di riflesso anche le altre nuove proposte Netflix di provenienza geografica affine: ad esempio il giapponese “Alice in Borderland”, che ha una trama gemella seppure meno sofisticata, con un gruppo di ragazzi di Tokyo sopravvissuti all’apocalisse e finiti in un gigantesco videogame irto di rischi mortali. Al maestro Kim Ki-duk farebbe piacere sapere che da quando l’Oscar a “Parasite” ha fatto da apripista, su grande e piccolo schermo le due Coree sono gettonatissime. E se ad Abu Dhabi hanno deciso di realizzare dal vivo (senza vittime, ovviamente) la gara di Squid Game arrivando al sold out di prenotazioni in poche ore, qualcuno ha però sgamato un plagio. Non solo la trama ma persino alcune scene dell’acclamata serie sarebbero state copiate dal film horror nipponico “As the God Will” di Takashi Miike e tratto dal manga di  Muneyuki Kaneshiro, uscito nel 2014.

Vietata ai minori o angosciante per gli adulti?

Ma è davvero una visione inadatta a menti acerbe o persino diseducativa? Al centro della storia, ideata dal sudcoreano Hwang Dong-hyuk, c’è una grande lotteria con in palio per il vincitore un premio di 45 milioni di won, circa 33 milioni di euro. Nessuno sa chi sia l’organizzatore nĂ© il suo braccio operativo, un tale Front Man incappucciato e dalla voce metallica – ibrido tra Dart Fener e Voldemort – che sguinzagliando i suoi agenti nelle periferie notturne recluta i 456 partecipanti, pescati da una variegata umanitĂ  di morti di fame (falliti, debitori disperati, gente con problemi di salute o semplici balordi abbagliati dal sogno di fare la bella vita): i giocatori vengono condotti in un’isola misteriosa, schedati come galeotti e sorvegliati da guardie armate e a volto coperto, che si distinguono per grado gerarchico grazie ai simboli di quadrati, cerchi e triangoli sulle loro maschere. Anche i carcerieri, che subiscono ogni sera un controllo elettronico tipo greenpass ma dove almeno la privacy è blindata, devono rispettare regole rigidissime… e come nelle migliori famiglie tra loro si celano corrotti e traffici illeciti.

La gara consiste nel superare entro un tempo stabilito semplici giochi da bambini (il titolo infatti si ispira al calamaro, nome di un popolare gioco asiatico simile a quello del campanaro ma basato sullo scontro fisico e molto aggressivo), come “un due tre stella” o il tiro alla fune. Ma chi non ci riesce viene ucciso a freddo sul posto, e appena il suo numero esce di scena il montepremi finale lievita.

Icone annunciate come la Cosa, sadica bambola gigante che terrorizza i partecipanti, atmosfere surreali con citazioni dalla fantascienza degli anni Sessanta (il cultissimo Star Trek ma anche “La decima vittima” di Elio Petri con Mastroianni – se non fossimo in Corea sembrerebbe di poter sentire da un momento all’altro un refrain di Piccioni) e dialoghi pervasi dall’innata filosofia zen orientale su catarsi e dolore elevano Squid Game decisamente al di sopra del solito action drama. Con l’aggiunta di qualche tocco orientale piacione, che delizia gli occidentali e negli oriundi tocca le corde della nostalgia per le tradizioni.

Distopico pop, certo che si può. Qui pare di stare dentro la colorata fabbrica del cioccolato di Willy Wonka (Dahl era un altro che di sottili crudeltà se ne intendeva) ma si raccontano senza filtri le più detrive miserie umane: avidità e inganno dominano le azioni dei protagonisti e il fatto che siano messe in scena sullo sfondo di giochi apparentemente innocui suscita un effetto straniante. Dal buio delle brandine, dove sono ordite cospirazioni endemiche per far fuori i rivali, al rosa shocking di psichedeliche scale di Escher, in un crescendo di inquietudine non ci si può fidare neanche dei compagni di disgrazia. Bandita ogni solidarietà, tutti sono pronti a tradire e uccidere per salvare la pelle e accaparrarsi il premio.

Squid Game è un prodotto che nel suo genere rasenta la perfezione. L’autore ci ha messo dieci anni a scriverlo, subendo vari rifiuti prima della proposta d’oro di Netflix e ora si sente salire l’ansia alle pressioni di una seconda stagione: una buona notizia per aspiranti sceneggiatori innamorati di questa serie è che Hwang non se la sente di farlo in solitaria ispirazione come accadde la prima volta (gli aneddoti sul suo lavoro creativo sono già leggenda) e ipotizza una writer’s room, per la quale non mancherebbero candidature.

Metafora della società capitalistica dove l’umanità si trasforma in branco

Il regista ha spiegato di aver voluto rappresentare un’allegoria del modello capitalista (riecco “Parasite”), dove gli individui sono incasellati in base alle loro risorse patrimoniali. La vita è una competizione durissima e spietata, tanto che i giocatori, completamente disumanizzati dalla tentazione della ricchezza, non abbandonano la gara anche se sanno che questo li trasformerà in assassini. Salta subito all’occhio come non ci siano storie d’amore, ed è un piccolo choc. Ma la brutalità e il cinismo di molte situazioni potrebbero nuocere a un pubblico di minori soltanto se i ragazzi fossero abbandonati a una visione autonoma. Anche perché non è una questione di età: vedere questa serie da soli può provocare angosciosi spleen pure nei maggiorenni e ultramaggiorenni. Insomma, scoprire quanto siamo brutti e cattivi fa male anche se si è usciti da un pezzo dalla fascia protetta, anzi sono proprio gli adulti ad avere bisogno di un affiancamento emotivo. Squid Game spesso ci ricorda la nostra vita, come in uno specchio. Gi-hun e gli altri siamo noi: divorziati, vecchi e soli, incapaci di trovare un’occupazione stabile, passati dalla ragione al torto e dalla legalità al reato, fustigati da sensi di colpa e rimorsi.

Se il racconto ha una sua etica è quella di un severissimo principio di uguaglianza, da cui non si deve sgarrare: il Gioco livella tutti perché i giocatori sono stati scelti per avere un’occasione di riscatto che la società classista gli nega. Quindi devono partire dalle stesse condizioni, senza favoritismi né imbrogli.

Il Bene alla fine timidamente affiora, nell’eterna lotta con il Male dove gli eroi esistono ancora – e se sono sfigati e derelitti funzionano meglio. La struttura narrativa di Squid Game ricorda l’eterno canovaccio delle fiabe dai fratelli Grimm a Basile, veri campioni di cattiveria. Narrazioni che non lesinano pericoli e mostri, ma vai a trovare oggi un bambino a cui faccia ancora paura la demoniaca Grimilde che sevizia Biancaneve con corsetti soffocanti e pettini acuminati. Il sangue alla Tarantino di Squid Game per loro è ordinaria amministrazione – oltre che platealmente finto. Forse è un po’ piĂą difficile spiegargli (a spiegarlo a noi stessi) il resto. Cioè quello che succede quando la seduzione dei soldi azzera ogni remora di coscienza e ci si trasforma in branco. Il no spoiler impone di non svelare quale sia l’obiettivo del grande gioco, ma non serve arrivare in fondo alle nove puntate per capire che l’intento del suo diabolico inventore non è angelico. La cultura orientale però sublima sempre la sofferenza in redenzione (complice pure l’atroce equitĂ  della malattia, che non guarda il portafoglio delle sue vittime). Raschiando il barile dell’immoralitĂ  siamo ancora umani, dunque. Fino alla prossima stagione, i personaggi ci lasciano in dote fino il conforto del pentimento e la speranza di un mondo piĂą giusto. Altrimenti che fiaba sarebbe?

Isabella Marchiolo