Nulla, non si trova una dichiarazione, una riga di commento, un chiarimento. Niente di niente. La questione delle pensioni, dell’atterraggio morbido dopo quota 100, del non ritorno alla legge Fornero, è letteralmente scomparsa, sia dalle prime pagine dei grandi giornali italiani che dal timone dei Tg nazionali. Draghi ha deciso, ancora una volta.

E così si è passati nel giro di qualche giorno dalla discussione interna al governo e ai partiti, dagli aut aut di Matteo Salvini, puntualmente fatti cadere al cospetto del presidente del Consiglio, alla soluzione ponte, che è quella della quota 102 secca, con minimo 64 anni d’età. Altro che rientro morbido alla condizione precedente a quota 100. Lo scalone rimane tutto, anzi appare più alto di prima. Ora se qualcuno si chiede che fine abbia fatto quel tetragono fronte sindacale che all’uscita dai colloqui con Draghi (che poi ha abbandonato il tavolo), nella serata precedente all’approvazione della manovra, aveva rilasciato dichiarazioni di fuoco che terminavano con la prospettiva dello sciopero generale, la risposta è che è difficile comprenderlo. Quello che è certo che su tutta la vertenza è calato il silenzio o quasi, lasciando nello sconforto e nello smarrimento decine di migliaia di lavoratori, in particolare quelli nati tra il 1960 e il 1961. Un esempio, a dir poco irritante, di come sono andate a finire le cose, può essere quello di un lavoratore nato il primo gennaio del ’60, che per un solo giorno non ha potuto utilizzare quota 100 e che ora, per effetto della decisione del governo del 28 ottobre scorso, potrà andare in pensione anticipata solo al raggiungimento dei 64 anni d’età, cioè a dire almeno tre anni dopo. Una pratica da gioco delle tre carte. E per arrivare a quota 102 non bastano i tanti anni di servizio effettuati, che potrebbero essere già ben più dei 38 necessari, perché per volere di Mr Mario Draghi e della consigliera Elsa Fornero, il vincolo ora è sull’età anagrafica e non tanto sull’anzianità di servizio. Insomma una beffa dalle dimensioni francamente inaccettabili. E’ vero che si tratta di una soluzione che varrebbe solo per il 2022 e che nel frattempo il tavolo di discussione sulla questione rimarrà attivo, proprio per trovare una via d’uscita organica e strutturale prima della fine dell’anno prossimo, ma nei fatti le gravi conseguenze sull’esistenza delle persone si consumano già da gennaio. Secondo le stime si tratta di almeno 50.000 lavoratori che si vedono allungare a dismisura il periodo di permanenza al lavoro, senza avere certezze sul proprio futuro, che potrebbe anche nascondere un’uscita a 67 anni e passa, se si considera anche il sistema di compensazione in vigore, legato all’allungamento medio della vita. La decisione del governo viene, dunque, letta come una gigantesca trappola, paragonabile, sul piano etico, a quella degli esodati della stessa Fornero, della quale mano sulle ultime decisioni di Draghi si trova oggettivamente traccia indelebile. L’unica vera cosa nuova che è stata messa sul tavolo, al di là dell’allargamento della platea dei lavori usuranti, dell’Ape social e di Opzione donna già in vigore, è quella di un fondo di 200 milioni di euro per i prossimi tre anni, utile a finanziare l’uscita a 62 anni dei lavoratori delle aziende in crisi. Insomma, la decisione presa dal governo è vissuta dai lavoratori come un’autentica ingiustizia sociale, che scaturisce da una concezione ragioneristica della vicenda pensioni, com’è sempre accaduto dall’avvento della Fornero in poi. Quello che conta è risparmiare per tenere in piedi il sistema. Il premier, in buona sostanza, ha piantato un paletto sulla copertura dell’operazione che è quello di un costo per il 2022 di soli 600 milioni, non un euro in più. Da li ne è conseguito un intervento severo e cinico, com’è appunto la quota 102 con il vincolo dei 64 anni stabilito all’interno della manovra per il solo 2022. Ma una materia così importante per la vita di decine di milioni di cittadini italiani non può essere affrontata sic et simpliciter facendo quadrare i conti della serva, anche perché una tale disparità di trattamento tra chi va via entro il 31 dicembre 2021, a 60 anni e 38 di lavoro, e chi, dalla sera alla mattina, sarà costretto a farlo molti anni dopo, non è impossibile apra le porte a contenziosi e ricorsi fino alla corte costituzionale. Da settimane non si fa risparmio di rivolgere chiamate al senso di responsabilità chi ritiene di poter andare in pensione in anticipo “facendo gravare il costo sulle spalle dei nostri figli” che potrebbero percepire una pensione del tutto insufficiente per vivere, ma non ci si preoccupa che anche i costi di un eventuale intervento dei giudici dell’Alta Corte graverebbero sulle spalle delle nuove generazioni. E non sarebbe la prima volta che accade. La palude in cui ci si è cacciati, quindi, non consente di procrastinare al 2023 decisioni strutturali e ponderate che attengono ai doveri di chi governa. Le strade per emendare la decisione dell’esecutivo su quota 102, a questo punto, sono essenzialmente un paio: quella di una netta e ferma presa di posizione dei sindacati, che si sono detti da subito contrari alla proposta e non hanno firmato l’accordo.  Le stesse organizzazioni possono, come hanno già intimato, chiamare i lavoratori alla mobilitazione e costringere il premier a discutere partendo dai diritti delle persone e non dai budget di spesa; e quella del parlamento in sede di discussione della legge di bilancio, alla quale è incardinata questa autentica beffa della quota 102. Da questo punto di vista i numeri di parlamentari ci sarebbero, almeno in teoria, per ammorbidire realmente e più gradualmente il passaggio che dovrebbe portare alla pensione con flessibilità vera i lavoratori tagliati fuori da quota 100. Persone che, paradossalmente, hanno iniziato a lavorare da giovanissime, accumulando tanti anni di servizio, e che ora, invece, devono attendere il requisito anagrafico dei 64 anni d’età per andare in pensione. Un’ingiustizia inaccettabile alla quale c’è ancora tempo per rimediare ma non tantissimo.

Rino Muoio