In questi giorni abbiamo ripreso a riempire i teatri. Con immenso piacere vedo pubblicizzare
film d’autore, da godere non più solo su Netflix o su altre tv a pagamento, ma sul grande
schermo. È da qualche anno, inoltre, che molti cinema di Milano (e di altre città d’Italia) hanno
calmierato i prezzi dei biglietti d’ingresso. E questo ha favorito un ritorno ancora più massiccio
e speranzoso del pubblico. Mostre e musei registrano il pieno. Che si stia ritornando a quei riti
che tanto affascinano gli appassionati delle innumerevoli forme d’arte che un paese civile può
offrire? Sembra proprio di sì.

Giusto qualche sera fa, al Piccolo (teatro di Milano), ho assistito a uno spettacolo di grande
pregio. Vedevo negli sguardi della gente, parzialmente coperti da mascherine indossate con
ligia precisione, una luce di allegria e di felicità per una normalità riconquistata dopo anni di
paura, di isolamento e di guerre con un nemico invisibile. Anni di buio. Quel buio che nasce da
un’anima che non riesce a nutrirsi di relazioni, di cultura, di arte, e che finalmente viene
rigenerata da uno squarcio di rinascita.
Nello stesso tempo l’altra guerra, quella in Ucraina, cominciava ad occupare la scena, a colpi di
social, con la ferocia mediatica che si è consumata sotto gli occhi di tutti. Uomini costretti a
lasciar partire la propria famiglia, figli adulti strappati alle loro madri per rispondere a una
chiamata alle armi, cortei di donne e bambini attraversavano i confini dei paesi più vicini per
sfuggire alla morte, neonati che vedevano la luce (si fa per dire) nei sotterranei della
metropolitana. E allora mi sono detta, forse un po’ egoisticamente: “Che bello poter vivere in
un paese libero! Che bello potersi muovere liberamente, uscire, prendere la metropolitana,
andare al cinema, passeggiare, andare a lavorare senza il patema di non ritornare, senza il
timore di essere impallinati per strada”. Mi sono compiaciuta dell’incommensurabile valore di
un paese democratico in cui è possibile maturare un pensiero critico, esprimere dissenso,
praticare il valore del dibattito e del contraddittorio, opporsi ai soprusi e contestare la logica del
potere, quando questa collide con i principi di libertà. Ho pensato anche a quanto siamo miopi
nel lamentarci dei sacrifici che talvolta ci vengono imposti. Che cosa saranno mai di fronte agli
orrori della guerra? Inezie! Ho riflettuto su quanto è sottile il confine tra la normalità del
quotidiano e la caduta nel baratro.
Spesso, a scuola, quando studiamo le dittature del Novecento, presento un film, “L’onda”.
Questo film, dall’alto valore pedagogico, mostra l’enorme facilità con cui è facile cadere vittime
dell’autocrazia, ventre materno che protegge e, nello stesso tempo, girone infernale che può
spingere fino all’estrema ratio della guerra. Sappiamo, però, che gli autocrati, travestiti da
pifferai salvifici, costituiscono una categoria difficile da estinguere.
Ed è quanto è successo all’Ucraina, paese libero, civile e democratico, che stava vivendo con la
dignità del lavoro e del sacrificio la lunga transizione post sovietica. Da un momento all’altro il
destino, sotto le spoglie di un tiranno che mette in galera gli oppositori, un nostalgico dell’URSS
e del KGB, amico della Stasi, un uomo rimasto imbrigliato nelle maglie della guerra fredda, ha
sconvolto la quotidianità di milioni di persone, infrangendone i sogni di benessere e di
normalità, col pretesto di denazificare un popolo, a suo dire, ingiustamente vessato.
Ed è quanto è successo ai russi, costretti a perorare le manie imperialiste di un leader
ambizioso e avido, trascinati in una guerra che mai avrebbero voluto.
La mia generazione non ha vissuto la guerra, ma l’ha solo vista in Tv. Ha assistito agli orrori
della guerra nel golfo, ha intercettato le violenze subite dal popolo siriano, è stata spettatrice
della tragedia di Tienanmen e della Cecenia. E tanto altro. L’Ucraina però è nostra vicina. E
nostri vicini, anzi nostri amici, sono tanti ucraini che vivono in Italia, che lavorano, pagano le
tasse, contribuiscono ad aumentare il nostro PIL e mandano i propri figli nelle nostre scuole.
La loro apprensione e le loro ansie sono anche le nostre. Il dolore per le loro perdite è anche il
nostro dolore. E in questo momento è difficile godere delle gioie della democrazia e di quella
luce di libertà che sembrava essere tornata con l’indebolirsi del Covid. Abbiamo però il dovere
morale di sottolinearne il valore e di ricordarne alle giovani generazioni l’estrema fragilità. Non
tanto per esorcizzare la sofferenza, ma per evitare future catastrofi. In una stupenda canzone
di tanti anni fa, Francesco De Gregori diceva, provocatoriamente, che la guerra è bella anche
se fa male e che alla fine torneremo ancora a cantare… Ecco, tra la guerra e la fine della
guerra, c’è la morte, un ponte sospeso sull’abisso e tante, tante lacrime sulla nostra pelle.
Meglio evitare. Anche perché, si sa, la guerra la decide chi non la fa. E probabilmente non la
subisce. Non dimentichiamolo.
Annalisa Martino