Nei secoli passati, il consumo di alcune droghe è stato associato ad ambienti più alternativi e ad arti nobili come la pittura, la letteratura e le poesie. E’ per tale motivo che alcune sostanze stupefacenti sono identificate come “droghe nobili”.

Tra queste l’assenzio: un distillato ad alta gradazione alcolica, dal colore verde e all’aroma di anice, derivato da erbe, quali i fiori e le foglie dell’assenzio maggiore (Artemisia absinthium).

La sostanza è stata ispirazione del modo di vivere bohèmien (tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900) termine con cui si usava descrivere lo stile di vita anticonformista e non convenzionale di artisti, scrittori, musicisti e attori spesso miserabili ed ai margini della società. Ed il consumo di questa droga era dilagata al punto che la preparazione dell’assenzio era diventato un vero e proprio “cerimoniale”: il rituale de “La Fée Verte”.

Il “rito” prevedeva il riunirsi nei bar tra le 5 e le 7 del pomeriggio, ora in cui una buona parte di popolazione trascorreva l’ora verde (facendo riferimento proprio al colore della bevanda), dedicando al distillato un apposito bicchiere a forma di piccolo calice. La “moda” dell’epoca prevedeva l’utilizzo di specifici modelli di bicchieri, delle piccole ampolline accompagnate da un cucchiaino, anch’esso segnato con le specifiche scanalature di dosaggio, da una zolletta di zucchero per ridurre il sapore amaro e da un bicchiere d’acqua ghiacciata per diluire il distillato, in modo da smorzare l’elevata gradazione alcolica

Tutto il procedimento trasformava l’assunzione della bevanda in un momento magico, affascinante e misterioso al punto da farne un liquore da “meditazione” e rilassante, che solitamente non andava bevuto “tutto d’un fiato”, ma consumato dopo un rituale abbastanza elaborato che regalava un’atmosfera ricca di fascino.

Se l’assenzio, non solo grazie al suo carisma ma, di certo, per gli effetti stupefacenti esaltò il genio creativo di pittori come Van Gogh, Manet e Picasso, altre droghe come l’oppio e la mescalina hanno sedotto svariati artisti.

Ma cosa affascinava di queste droghe? Certamente, come scriveva Charles Baudelaire nella raccolta di poesie Les Fleurs du Mal (I Fiori del Male, 1857), il loro era un bisogno intimo, una presa di possesso dell’inconscio, l’alienazione da una realtà viziata dalla mediocrità. Ma seppur ognuno di noi, è attratto dalla curiosità di scoprire l’alterazione degli strati abnormi dell’ego dall’imperscrutabile, dal sogno, dall’inconscio, è proprio il “poeta maledetto” che, paragonando gli effetti del vino e dell’hascisc, scrive: Il vino esalta la volontà, l’hascisc l’annienta. Il vino è un supporto fisico, l’hascisc è un arma per il suicidio. Il vino rende buoni e socievoli. L’hascisc isola. L’uno, per così dire è operoso, l’altro è essenzialmente pigro. Per che cosa, infatti, lavorare, faticare, scrivere, fabbricare qualsiasi cosa, quando si può in un solo istante conquistare il paradiso? Infine il vino è fatto per il popolo che lavora e che merita di berne. L’hascisc appartiene alla classe delle gioie solitarie; è fatto per i miserabili oziosi. Il vino è utile, produce risultati fruttuosi. L’hascisc è inutile e pericoloso.” Ed allora viene da chiedersi se gli artisti simbolisti, nell’utilizzo delle “droghe nobili” avessero come unico obiettivo quello di “perpetrare nell’inconscio pericolosamente”.

Rossella Palmieri