Ha costituito per anni la sede del dibattito intellettuale alla portata di tutti, l’agorà della riflessione politica, ma anche l’occasione quotidiana di portare le analisi “evolute” sul divano di casa, rendendo possibile un miglioramento delle conoscenze dei fenomeni e, dunque, una nuova forma di partecipazione civile. Ma quello che sta accadendo al talk show nostrano, dagli inizi della pandemia, è una vera e proprio inversione funzionale, che traccia con chiarezza la lenta agonia del format, a giudicare anche dai tantissimi italiani che hanno deciso di non seguirlo più.

Quello che sta colpendo il principe dell’intrattenimento, il talk appunto, con ascolti in caduta libera, è un virus pernicioso che sta finendo per infettare anche gli spazi informativi tradizionali, fino ai telegiornali per intenderci. Ma quali sono le cause che stanno facendo precipitare l’appeal degli oramai storici contenitori di commenti, magari a pagamento, per decenni raccoglitori di consensi nel più ampio significato del termine? Essenzialmente tre: Le linee editoriali, la sempre maggiore influenza del conduttore nella scelta degli ospiti, gli indici d’ascolto. Accade insomma che nella preparazione della puntata di un talk gli ospiti siano fondamentali per “orientare” il dibattito verso una tesi ben definita o verso lo scontro retorico e populista, che, si badi bene, non riguarda necessariamente un fatto specifico ma un controllo generale sull’approccio alle grandi questioni. Per più di due anni, ad esempio, in relazione alla pandemia, il dibattito si è sviluppato, ancor prima che sull’efficacia o meno dei vaccini, sulla scienza e l’antiscienza, sulla logica e comprensibile supremazia delle competenze degli scienziati sui politici, in relazione alla gravità e alle misure di contenimento di un contagio che ha interessato l’intero pianeta. E’ avvenuto, pertanto, che l’elaborazione di un dibattito così radicale si sia evoluta in questione fortemente divisiva, finendo per porre, anzi, contrapporre una parte minoritaria dell’opinione pubblica, non di rado quella meno competente e rappresentativa (No Vax, ad esempio), contro quella “dominante” (Si Vax) in un rigurgito di lotta intestina, sociale, a tratti di classe, del tutto estranea al vero problema, che era quello di arginare un virus che ha procurato, oltre 500 milioni di contagi e quasi 6 milioni e mezzo di morti in due anni. La sopravvenuta tragedia della guerra in Ucraina, invasa militarmente dalla Russia, ha ora rimosso dalla discussione mondiale il Covid, per posizionare un altro dualismo che riguarda le ragioni del conflitto. Questa volta l’opinione pubblica italiana “viene divisa” tra le colpe dell’Occidente nel provocare Putin “posizionandosi alle porte di casa” e le manie imperialiste dello stesso presidente russo. E ancora sulla utilità del fornire armi agli ucraini per interdire l’avanzata drammatica dell’ex armata rossa e la necessità di avere un atteggiamento prudente/terzista/pacifista da parte dell’Unione Europea e dell’Italia (fino ad auspicarne addirittura l’uscita dalla Nato) che potrebbe finire per diventare il primo vero teatro di guerra indiretta e forse nucleare tra Putin e Biden. In realtà si tratta di una dolosa volontà di immettere negli approfondimenti elementi di mera realtà rovesciata, per non dire di menzogne, proprio per costruire un clima di illogico contrasto tra le parti e realizzare un interesse mediatico fortissimo, in grado, per il conduttore e la testata, di aumentare oltre misura gli ascolti e dunque gli introiti pubblicitari, e per gli editori (veri o occulti che siano) di sostenere posizioni che abbiano una pronunciata sensibilità verso una fetta di elettorato con posizioni spesso vicine alla destra radicale e populista. E’ andata così nei due anni di pandemia circa la validità dei vaccini, rivelatisi poi determinanti per la lotta al coronavirus, e sta andando così per la guerra in Ucraina, in cui la resistenza di quel popolo dovrebbe essere sostenuta per postulato, posto che è chiarissimo chi sia l’aggressore e chi sia l’aggredito. Si invitano, sotto l’ombrello della presunta assicurata equidistanza delle posizioni, in una sorta di pelosa par condicio, ospiti, spesso pagati, che sostengono tesi contrapposte. Da un lato quelle suffragate dalle evidenze dei fatti, scientificamente provate o indiscutibilmente documentate, dall’altra quelle sostenute da elementi singolari, inconsistenti o addirittura dettate da interessi più oscuri. Non è un caso, ad esempio, che in questi giorni pare che la stessa commissione di vigilanza della Rai, in collaborazione con il Copasir, si stia occupando di comprendere i meccanismi che regolano la presenza nei talk di giornalisti che lavorano per le televisioni di stato russe, e quindi controllate da un regime in cui la censura è oggettivamente presente.

Si tratta, ovviamente, di situazioni limite, ma rimane la questione di fondo, che vede spesso i talk funzionali non piĂą all’approfondimento oggettivo degli argomenti trattati ma alla volontĂ  di dividere l’opinione pubblica e creare interesse sulla polemica piĂą che sui contenuti. In questo senso appare illuminante, coerente e condivisibile la posizione di Enrico Mentana, che sia in un caso, i fatti della pandemia, e sia nell’altro, la guerra in Ucraina, ha inteso mantenere un profilo sobrio e rigoroso, non dando voce nei propri spazi a tesi, e quindi ospiti, che non fossero e non siano sostenute da fatti e riscontri incontrovertibili. Una posizione convinta, ribadita qualche giorno fa anche nel talk diretto da Maurizio Costanzo, a Michele Santoro, in un scontro efficacissimo per comprendere cosa sta accadendo nel sistema dell’informazione italiano, a proposito della certa aggressione di Putin all’Ucraina. “Il professor Orsini è il personaggio che è apparso di piĂą in televisione a parlare della guerra. Non si può dire – ha sostenuto Mentana, dopo i complimenti di Costanzo per il suo lavoro d’informazione puntuale ed efficace svolto in questi anni – che Putin abbia attaccato e allo stesso modo che Zelensky se l’è tirata”  Una posizione logica ma contestata da Santoro, secondo il quale invece sarebbe necessario dare ospitalitĂ  ad ogni dissenso, forse anche, è sembrato di capire,  a prescindere dalle competenze e dalle consistenze di merito, per “non essere la fanfara del pensiero unico” ha argomentato.

Delle due linee di pensiero, tuttavia, non si può che preferire la prima, proprio per contenere la diffusione di tesi non legate alla realtà dei fatti, singolari, populiste e propagandistiche, come peraltro avviene quotidianamente sulle reti televisive, sui giornali italiani e ancor di più sui social (fake news), che non aiutano la crescita della capacità critica dell’ascoltatore o del lettore ma allontanano quest’ultimo dalla verità, per un preciso calcolo commerciale, elettorale o politico. E l’informazione non deve svolgere questo ruolo ma ha l’obbligo di narrare la verità dei fatti,. Sempre, comunque e in ogni caso.

Rino Muoio